8 marzo 2024: non chiamatela “Festa”, non fateci gli auguri!

Sono le 7:30. Il sole ormai si è levato, il mondo è sveglio, dinamico e produttivo. È mattino, comincia da ora la piaga del ridicolizzare e sminuire questa importante giornata, oggi più che mai

8 marzo, non una festa, ma la “Giornata internazionale dei diritti della donna”. Cosa vuol dire? Potremmo iniziare con il solito excursus storico dell’origine, ma, per quanto importante scavare nelle radici del nostro passato, oggi è l’8 marzo del 2024, non una data ideale, bensì un momento attuale, attualissimo, nuovo, diverso.

Oggi noi tutte ci fermiamo. Ci fermiamo, innanzitutto, a riflettere sullo stato delle cose, dei diritti raggiunti, del processo di parificazione dei generi. Oggi, in questo momento preciso sociale. In questo periodo sociopolitico. Oggi e non ieri. Oggi, per avere un domani.

Dati alla mano, riflettiamo. Quasi il 60% delle donne ha una retribuzione inferiore al collega uomo, a parità di ruolo, responsabilità e anzianità di servizio.

Secondo i dati Eurostat, in Italia il tasso di occupazione delle donne di età compresa tra i 20 e i 64 anni, al IV trimestre del 2022, è stato pari al 55%, mentre la media UE è stata patri al 69,3%.

Secondo l’Istat, il lavoro “non-standard” – ovvero, i rapporti caratterizzati da una ridotta continuità nel tempo e/o da una bassa intensità lavorativa; in altre parole, contratti a tempo part time involontaria – coinvolge soprattutto le donne: il 27,7% delle occupate sono lavoratrici “non-standard”, contro il 16,2% degli uomini.

La quota di lavoratori non-standard raggiunge il 45,7% tra le donne giovani (a fronte del 33,9% dei coetanei), il 36,1% tra le residenti nel Mezzogiorno (22,1% gli uomini della stessa ripartizione), il 36,4% tra le donne che hanno al massimo la licenza media (18,6% gli uomini con lo stesso livello di istruzione) e arriva al 40,7% tra le straniere (28,3% tra gli stranieri maschi).

Lo svantaggio femminile si evince anche dalle retribuzioni: i dati del 2019 mostrano che in media le donne percepiscono una retribuzione oraria dell’11% inferiore a quella degli uomini, con differenze territoriali che variano tra il -13,8% nel Nord-ovest e il -8,1% nel Sud.

Ma non si tratta solo di svantaggi in termini di difficoltà a trovare un posto di lavoro. Anche le donne lavoratrici devono scontrarsi con diverse problematiche: il 61% delle donne ha dovuto accettare un part-time forzato e solo un terzo è riuscito ad ottenere un contratto a tempo indeterminato.

Uno studio Mckinsey ha però evidenziato che se tutti i paesi si comportassero come i migliori con riferimento alla parità di genere (UK, Giappone e Germania), il PIL mondiale crescerebbe di 12 trilioni di USD in 10 anni e, nel caso di piena parità di genere, di ben 28 trilioni.

Le donne che più subiscono una penalizzazione nel mondo del lavoro sono le mamme. Infatti, la disparità tra uomini e donne si accentua nel momento in cui subentrano dei figli. Nel 2020 in Europa sono state occupate in media il 73.2% delle donne tra 20 e 49 anni contro l’83.9% degli uomini della stessa età. In assenza di figli, il divario si riduce: le donne europee che lavorano sono il 76.2%, gli uomini il 79.1%. Viceversa, le donne occupate che hanno figli scendono al 71.2% mentre il tasso di occupazione per gli uomini con figli sale all’89.1%.

Se quindi in assenza di figli il gap uomo-donna è di 3 punti, per coloro che hanno figli il gap passa a 18 punti. In Italia questa situazione si aggrava: il divario di tasso di occupazione uomo-donna tra coloro che hanno figli arriva addirittura a 28 punti.

Nel 2020, inoltre, circa 8 madri su 10 hanno fatto richiesta per i congedi parentali, contro un ben più modesto 2 su 10 dei padri. Questo, naturalmente, ha numerose implicazioni negative: ostacola la possibilità che le donne lavorino se diventano madri e che i padri possano godersi più a lungo la famiglia; ma condanna anche l’Italia a un basso livello di occupazione, a un mercato del lavoro più fragile e a una riduzione delle nascite.

Anche le imprese femminili, dopo il boom del 2014, sono in calo a seguito della pandemia di Covid-19. Come dimostra il Bilancio di genere 2021, nel 2020 le imprese femminili rappresentano il 21.9% del totale, circa 4 mila unità in meno rispetto all’anno precedente. Inoltre, se le confrontiamo con quelle maschili, sono di dimensioni più piccole, per lo più localizzate nel Mezzogiorno e molto più giovani.

Allo stesso modo anche la percentuale di donne in ruoli dirigenziali resta bassa: la media nei consigli di amministrazione delle società quotate è del 38.8%.

Il lavoro è uno degli ambiti in cui i divari di genere sono più visibili. Molto spesso le donne incontrano maggiori difficoltà a trovare un impiego e a coprire ruoli di prestigio e responsabilità. Complici anche gli stereotipi riguardo al lavoro familiare e di cura, si ritrovano più spesso inattive: una condizione che riguarda il 30,5% delle donne europee, quasi 10 punti percentuali più degli uomini. Oppure sottoccupate, costrette a lavorare meno tempo per dare spazio alle attività domestiche.

In Italia esiste un forte divario di genere nell’istruzione. Nonostante l’equità del sistema d’istruzione italiano sia superiore alla media Ocse per provenienza socioeconomica, e nonostante negli ultimi decenni ci sia stata un’inversione di rotta (oggi le donne tendono ad essere più scolarizzate degli uomini), le maggiori competenze acquisite non si traducono in maggiori tassi di occupazione né in redditi più alti, mantenendo vivi i gravi squilibri di genere. 

Le ragioni di questa distanza possono essere ritrovate proprio nella disparità educativa. Nonostante i tentativi di incoraggiare la diversità di genere nella scelta del percorso di studi e delle carriere, la strada verso la parità in questo senso è ancora lunga. Il rapporto Education at a Glance mostra come sia ancora bassa la percentuale di donne sul totale dei laureati nelle tecnologie dell’informazione e in ingegneria. Questo genera disparità nel percorso lavorativo successivo, trattandosi di materie che nel mercato del lavoro attuale sono maggiormente richieste ed offrono maggiore stabilità lavorativa e redditi medi più alti. Una tendenza che coinvolge tutti i paesi Ocse ma vale in particolare per l’Italia.

Secondo il rapporto “Ocse, uno sguardo all’istruzione” ,alla stregua di tutti i Paesi dell’OCSE, gli uomini rappresentano la grande maggioranza dei laureati di primo e secondo livello nel campo delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (79% di primo livello e 86% di secondo) e in ingegneria, produzione industriale e edilizia (69% e 73%). Le donne sono sovra rappresentate nel settore dell’istruzione, delle belle arti e delle discipline umanistiche, nelle scienze sociali, nel giornalismo e nell’informazione; nonché́ nel settore della sanità e dei servizi sociali, sia nel primo che nel secondo livello di laurea, e anche in scienze naturali, matematica e statistica a livello magistrale, rappresentando più del 60% dei laureati in questi campi. L’Italia registra il divario di genere più pronunciato tra i Paesi dell’OCSE a riguardo delle lauree nel settore educativo: le donne rappresentano il 94% dei titolari di una laurea di primo livello e il 91% di una laurea di secondo livello.

Lo studio PISA ha inoltre rilevato che, in tutti i paesi e le economie che hanno raccolto dati anche sui genitori degli studenti, i genitori sono più propensi a pensare che i figli maschi, piuttosto che le figlie, lavoreranno in un campo scientifico, tecnologico, ingegneristico o della matematica – anche a parità di risultati in matematica.

Le ricerche di Unicef confermano questo aspetto, indicando come l’infanzia sia un’età più egualitaria di quanto ritenuto in passato. Le differenze di genere nell’istruzione, come in altri campi, spesso emergono durante l’adolescenza. Ad esempio, con l’aumento del gap maschi-femmine sull’acquisizione delle competenze, con le ragazze che consolidano il vantaggio su quelle alfabetiche a discapito di quelle numeriche.

Il risultato è che, nei percorsi di studio e lavorativi, attualmente una bambina avrà meno probabilità di un coetaneo maschio di essere occupata da adulta e avrà una retribuzione media più bassa.

Le donne sono il motore della scuola italiana. Infatti secondo dati del Ministero per l’anno scolastico 2021/ 2022  in Italia le docenti di ruolo in cattedra sono l’83% del totale. Si rileva una stragrande maggioranza di donne impiegate nei servizi di assistenza all’infanzia con il 99% di donne, percentuale che scende lievemente al 96% nelle scuole primarie, al 78% alle scuole secondarie di primo grado e al 66% per la scuola secondaria di secondo grado.

La situazione italiana riflette una tendenza che si verifica anche nei paesi dell’OCSE: in media il 70% degli insegnanti sono donne, con una sovra rappresentazione di donne soprattutto ai livelli di istruzione inferiori; nel 2019 in media l’84% degli insegnanti della scuola primaria nei paesi OCSE erano donne. 

Le cose cambiano poi all’Università dove, secondo dati del 2021, le donne sono il 41,1% dei 73.493 docenti e ricercatori/ricercatrici. In particolare, in ambito universitario,  si rileva una situazione di segregazione verticale: mano a mano che si sale nella scala gerarchica, le donne diminuiscono; nel 2021 il 49% dei/delle titolari di assegni di ricerca erano donne, tra i ricercatori e le ricercatrici universitarie sono il 46%, il 41% di professori e professoresse associate, e sono solo il  26% tra i professori e le professoresse ordinari.

Rimane ancora scarsa la presenza delle donne ricercatrici e docenti nelle aree STEM, che si attesta al 36,5% in generale, con percentuali via via più basse mano a mano che si sale nella gerarchia accademica: sono il 42% dei/delle titolari di assegni di ricerca, il 41% dei ricercatori e delle ricercatrici universitarie, il 37% di professori e professoresse associate, e il 22% dei professori e delle professoresse ordinarie.

La significativa presenza delle donne nella scuola – fatta eccezione per l’università –  ne fa un settore segregato orizzontalmente  rispetto al genere, vale a dire un settore lavorativo in cui le donne sono la maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori; questo si può spiegare storicamente con il fatto che il mestiere di insegnante ha rappresentato nel nostro paese una via per l’emancipazione e l’affermazione dei diritti delle donne. 

Soprattutto in passato, fare  l’insegnante (per via del teorico impegno limitato in termini di ore) era un mestiere ritenuto conciliabile con le esigenze familiari, che in teoria non metteva in discussione il ruolo di accudimento tradizionalmente attribuito alle donne e che ne consentiva tuttavia l’emancipazione economica – ma fino ad un certo punto.

Nel nostro paese, infatti, secondo l’OCSE, “Gli stipendi medi effettivi degli/delle insegnanti corrispondono a solo il 69 % degli stipendi di altri lavoratori e lavoratrici con un livello di istruzione terziaria”; è per fortuna, sia in Europa che in Italia, praticamente nullo il divario di genere nei salari.

Un divario molto contenuto o inesistente e retribuzione basse rispetto ad altri lavori, scoraggiano ulteriormente gli uomini – che spesso sono ancora i principali breadwinner, dall’intraprendere una carriera nell’insegnamento, rafforzando quindi il processo di femminilizzazione di questo settore. 

Gli stipendi bassi non favoriscono l’attrazione di talenti, e ci si chiede anche quante donne abbiano deciso di dedicarsi all’insegnamento per reale interesse e vocazione e quante invece per ripiego, in mancanza di alternative migliori. 

Inoltre, in Italia, più che in altri paesi europei, c’è bisogno di una notevole anzianità di servizio per vedere aumentare il proprio stipendio, e di poco: secondo il rapporto Teachers’ and school heads’ salaries and allowances in Europe 2020/2021 in Italia “gli stipendi iniziali degli insegnanti possono aumentare di poco meno del 50% solo dopo 35 anni di servizio”, mentre in  Irlanda, Cipro, Paesi Bassi e Polonia dopo 15 anni di servizio lo stipendio iniziale degli insegnanti può aumentare di più del 60%. Il fatto che manchi una progressione di carriera per gli/le insegnanti italiane, comporta, secondo l’OCSE, che  un/una preside in Italia guadagni più del doppio dei docenti. Negli altri paesi europei, dove la progressione di carriera esiste, il gap negli stipendi è più contenuto. 

Infine, la scuola italiana è caratterizzata da una significativa precarietà che comporta che nel nostro paese si diventa docenti di ruolo verso i 40 anni di età. Di conseguenza anche l’età dei docenti e delle docenti in Italia è maggiore che in altri paesi per esempio: in Italia il 60 % del personale docente della scuola secondaria superiore ha 50 anni o più, mentre la media dell’OCSE è solo del 40 %.   In particolare, il 42% degli/delle insegnanti in Italia ha più di 54 anni, e solo il 3% ha meno di 34 anni. Queste percentuali rimangono pressoché invariate tra le insegnanti: il 3% ha meno di 34 anni, il 42% ha più di 54 anni, il 19% tra 35 e 44, ed il 37% tra 45 e 54 anni.

Anche per quanto riguarda l’università, l’età media dei docenti e delle docenti è piuttosto alta: l’età media dei professori e delle professoresse ordinari/e è di 58 anni sia per gli uomini che per le donne, e scende a 52 anni per professori e professoresse associate.

Sono decisamente più giovani i/le titolari di assegni di ricerca: l’età media in questo caso è di 34 anni per le donne e 33 anni per gli uomini. 

La scuola è quindi un settore lavorativo altamente femminilizzato, con una età media piuttosto alta, e caratterizzato da condizioni di lavoro non particolarmente favorevoli: a questo si aggiunge il fatto che alla scuola, e quindi anche alle  donne che ci lavorano viene chiesto moltissimo – basti pensare ai periodi di lockdown e di scuola a distanza dovuta alla pandemia – con risorse limitate. 

Dati OCSE rivelano, infatti, che l’Italia investe il 4,2 % del suo PIL nell’istruzione dal livello primario a quello terziario, un dato inferiore alla media dell’OCSE del 5,1 % e che corrisponde a una spesa per studente di 11. 400 dollari, rispetto alla media dell’OCSE di 12.600 dollari; il 30 % delle risorse stanziate era destinato all’istruzione primaria, il 16 % all’istruzione secondaria inferiore, il 30 % all’istruzione secondaria superiore e post-secondaria combinati ed il 24 % ai percorsi di laurea triennale, laurea specialistica e dottorato o equivalenti. 

Se, nel periodo 2019- 2020, come conseguenza della pandemia, in media nei paesi dell’OCSE la spesa per gli istituti di istruzione dal livello primario a quello terziario per studente a tempo pieno è aumentata dello 0,4 %, in Italia questa spesa ha visto una diminuzione dell’1,3 %.

La femminilizzazione della scuola può inoltre avere conseguenze inaspettate su studenti e studentesse: la scarsa presenza di docenti uomini in generale, e soprattutto nei servizi di assistenza all’infanzia e alle scuole primarie, non consente di offrire modelli di ruolo di uomini in posizioni lavorative caratterizzate dalla cura e dall’accudimento. Inoltre, una maggiore presenza di docenti uomini alle superiori e poi all’università, dove l’aspetto di cura ed accudimento diminuisce ed aumenta quello legato a livelli maggiori di competenza e conoscenze, favorisce l’associazione tra sapere formale, “alto” e gli uomini da un lato, e l’associazione tra le donne e la cura della persona, prima che dell’intelletto, dall’altro. 

Nel 2023 in Italia sono state uccise 120 donne. Relativamente al periodo 1 gennaio – 3 marzo 2024, sono stati registrati 60 omicidi, con 20 vittime donne, di cui 18 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste 8 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner, mentre gli episodi di violenze sessuali e molestie si ripetono giorno dopo giorno.

Secondo l’ultima indagine di Save The Children e Ipsos “il 30% degli adolescenti sostiene che la gelosia è un segno di amore […] Il 17% delle ragazze e dei ragazzi tra i 14 e i 18 anni pensa possa succedere che in una relazione intima scappi uno schiaffo ogni tanto […] quasi uno/a su cinque (19%) di chi ha o ha avuto una relazione intima dichiara di essere stato spaventato dal/lla partner con atteggiamenti violenti, quali schiaffi, pugni, spinte, lancio di oggetti“.

A questa ricerca, si accompagna quella dell’Istat (2019) per cui il 39.3% della popolazione ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se non lo vuole. Secondo il 23.9% una donna può provocare la violenza sessuale con il suo modo di vestire e per il 15.1% si è corresponsabili se la violenza sessuale avviene da ubriache o sotto effetto di droghe.

Sono tutti dati spaventosi, frutto di una cultura dello stupro contro cui non si fa ancora abbastanza.

È evidente, da queste statistiche, come chiaramente stereotipi e credenze danno vita alle diseguaglianze di genere.

“Solo sì è sì” dovrebbe essere una frase scontata, ma in Italia purtroppo ancora non lo è. 

L’eradicazione della violenza di genere, manifestata in varie forme, da abusi fisici a stalking, può partire da un cambio di mentalità che coinvolga uomini e donne in una lotta comune. Ma questo non basta, serve anche mettere nero su bianco, una volta per tutte, che il sesso senza consenso è stupro.

Nel codice penale italiano, infatti, l’articolo 609-bis prevede che il reato di stupro sia necessariamente collegato a violenza, minaccia, inganno e abuso di autorità. Nessuna menzione, quindi, al consenso. Nessun riferimento a quanto stabilito dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, per cui lo stupro è un “rapporto sessuale senza consenso“ e il consenso “deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto“.

Come viene affrontato in Italia l’8 marzo?

  • Eventi aziendali per questa giornata, ma nel quotidiano il 90% del top management è “uomo”.
  • Foto delle “quote rosa” aziendali.
  • Mail con offerte che ci invitano a “festeggiare” spendendo.
  • Il comune di Genova, mentre le donne rivendicano i propri diritti, propone, per oggi, propone gusti di gelato e sorbetti in onore del sesso femminile.
  • Mimose e rose a palate, in ogni caso, in ogni posto di lavoro.
  • Auguri inappropriati e non richiesti.

C’è ben poco, dunque da festeggiare!

E perché e per cosa oggi scioperiamo?

Liberazione dai ruoli di genere, l’autodeterminazione dei corpi e il riconoscimento di “diversi modi di essere famiglia”, “l’aborto garantito”, in tutte le regioni, senza l’imposizione di “dolore fisico o emotivo”. Tra i temi sollevati anche quello della violenza ostetrica. Si chiede inoltre una “medicina femminista e transfemminista che consideri e studi anche i corpi e le patologie delle donne”, come la vulvodinia, meno affrontate dalla scienza e dalla farmacia tradizionali. Vogliamo una rivoluzione a livello culturale: il sapere e l’educazione sono fondamentali per una società “libera dalla violenza patriarcale, dal razzismo, dall’abilismo e dal classismo”.

Molte delle istanze della piazza riguardano poi il lavoro e il “superamento del modello produttivo capitalista e antropocentrico, che riduce tutto a risorsa o merce da sfruttare”: dalla lotta contro la criminalizzazione delle sex workers, a quella per il welfare, con il sostegno al reddito di cittadinanza e al salario minimo. O ancora contro la precarietà e ritmi incessanti, fino a quella contro la differenze di paga e di trattamento in ufficio e negli altri luoghi. “Lo sciopero femminista e transfemminista però non è solo sciopero dal lavoro produttivo. Ma anche dal lavoro di cura, dal lavoro relazionale. Sciopero dai consumi e dai generi. – spiegano le attiviste – Ci sono tante forme di lavoro che ogni giorno vengono invisibilizzate e da cui possiamo scioperare”. Fermarsi l’8 marzo “significa prenderci una giornata per stare insieme, per dire insieme no a tutto ciò che non funziona nelle nostre vite e in questo mondo patriarcale e violento”.

Inoltre, scioperare contro il patriarcato significa scioperare contro la guerra come massima espressione della violenza del patriarcato. Significa reclamare la fine di tutti i conflitti nel mondo e, in questo particolare momento storico, si sostanzia con la richiesta forse e categorica di un cessate il fuoco su Gaza.

Oggi non festeggiamo, oggi lottiamo. In piazza, nei luoghi pubblici e nel privato.

Oggi non saremo produttive né riproduttive di un sistema gerarchico, prevaricante, di rapporti di forza e violenza.

Oggi chiediamo l’ascolto, la relazione, la parità vera e non brandizzata.

Ci fermiamo dalla produzione e dal consumo.

Se ci fermiamo noi, si ferma il mondo!

Non fateci gli auguri. Chiedete, uomini, in che modo potete essere utili alla causa e, soprattutto chiedetevi se finalmente siete disposti a rinunciare ai vostri privilegi, per creare dei diritti per tutti.

Per noi, in Italia, e per tutte le donne ovunque nel mondo. Vita, donna, libertà!

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