Idealista… a chi?

E qualcosa rimane… Sì, qualcosa rimane. Certe volte anche solo una parola. Ma basta quella. Idealisti, per esempio. Lo ha detto lunedì Dacia Maraini di Chiara d’Assisi e Francesco, due – secondo lei – fra i primi e senz’altro i pochi idealisti della nostra storia nazionale e cioè, semplicemente, persone capaci di tener fede (è il caso di dire) ai propri ideali anche a costo di pesanti sacrifici. L’idealismo di Chiara e Francesco ha toccato l’estremo della santità per aver essi perseguito l’imitazione di Cristo e il privilegio della povertà. In altre vite durante gli snodi cruciali di Rinascimento, Risorgimento e Resistenza esso ha prodotto eroismo e così ogni volta che particolarmente alto è il prezzo pagato per il proprio impegno di coerenza.
L’idealismo, oggi, in un paese normale dovrebbe essere pratica quotidiana e di massa e non quasi un epiteto al confine con scemo, una sua variante eufemistica nel paese dei furbi, degli ammiccamenti, delle barzellette risolutorie dove vince chi la “spara” più grossa, una mano lava l’altra e Franza o Spagna purché se magna…
Una declinazione laica di idealismo valida per tutti è nelle vite blindate di cinque pubblici ministeri raccontate da Lionello Mancini nell’Onere della toga. Martedì scorso il suo backstage umano di una professione ha creato fra i presenti la magia di un fremito comune di orgogliosa consapevolezza della grande nobiltà del proprio umile idealismo, quello quotidiano e perlopiù oscuro dell’esercizio del proprio dovere. Né di santi né di eroi ha bisogno un paese normale ma dell’idealismo civile e sociale di gente che affida la misura di sé, si definisce e valuta il suo valore non nel possesso o nel potere ma nella qualità del proprio lavoro inteso prima di tutto come servizio agli altri, quale che esso sia, come i cinque pubblici ministeri raccontati da Lionello Mancini. Martedì nella Sala rosa io ne ho visti tanti così. Martedì sera è stata una bella sera. E qualcosa rimane…

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