La Mafia, da semplice strategia a vera e propria ideologia…@Michele Illiceto

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L’arresto del latitante e superboss Matteo Messina Denaro, ha riacceso in questi giorni il dibattito non solo sul fenomeno mafioso in generale, ma anche sul rapporto che in questi anni si è venuto a creare tra mafia e società civile, a causa anche della fitta ed estesa rete di protezione che “U Siccu” ha ricevuto, in tutti questi anni, da parte della cosiddetta “borghesia mafiosa”, sì da poter condurre una latitanza, non solo tranquilla, ma anche prosperosa dal punto di vista degli affari.

Il primo elemento da prendere in considerazione a riguardo concerne il tentativo messo in atto dalla mafia, non solo di imporre le logiche di potere delle loro scelte criminali, ma anche quello di costringere il tessuto sociale circostante, in modalità molto soft, ad “abituarsi” al fenomeno mafioso, inducendo tutti ad accettarlo come se si trattasse di un fatto normale, si da poter dire che, in fondo, esso non c’è.

La normalizzazione della mafia la rende più invisibile di quanto già non sia. E questa sua invisibilità, che la rende sfuggente e inafferrabile, la rende ancor più potente. Messina Denaro, in tutti questi anni, ha cambiato strategia. Non ha cercato di contrapporre la mafia alla società, ma ha fatto in modo che le fosse talmente assimilata da farla apparire non più come un corpo estraneo, ma come un suo elemento costitutivo, talmente necessario che molti hanno cominciato a ritenerla essenziale e vitale.

Da un atteggiamento di contrapposizione è passata a no di assimilazione.

Pertanto non si tratta più o solo di cattiveria ma di strategia, dietro cui si nasconde una perversa ideologia, quella che ha portato molti a pensare che senza la mafia la società non cresce. E’ stato forse questo il punto di forza della latitanza del superboss?

Ma abituarsi a tutto questo non è che una resa che ci rende quasi complici con la nostra assuefazione e rassegnazione. Guai imparare a convivere con la mafia! Non serve neanche dire “Basta che si sparano tra di loro”. Che magra consolazione! Se così fosse, faremmo il loro gioco. Gli riconosceremmo un spazio, il diritto a vedersela tra di loro, imponendo però la logica della violenza e del sopruso. No! Con la mafia non si convive, nè si scende a compromessi. Al contrario, ci si dissocia e la si condanna apertamente.

Solo che per contrastare l’ideologia della mafia bisognerebbe proporre una visione ad essa radicalmente opposta, che chiama in causa il ruolo dell’educazione che sia in grado di far nascere, specie nelle nuove generazioni, un alto senso civico da contrappore al cinismo dei mafiosi. Una nuova cultura della legalità che sappia creare anche una maggiore coesione sociale. E bisogna dire che in questi anni, grazie anche all’eredità lasciata dai vari Falcone, Borsellino e tanti altri, di passi in avanti sono stati fatti.

La mafia la si combatte non solo con le indagini dei magistrati, ma con le idee, le parole, con nuovi alfabeti di cittadinanza, con la solidarietà tra di noi, non lasciando soli coloro che sono solo le vittime di turno. “La mafia – diceva Giovanni Falcone – ha più paura delle istituzioni scolastiche che delle forze dell’ordine”. la mafia la si vince insieme e non da soli, dentro di noi e non fuori di noi!

Nel rapporto società civile-mafia, il problema non è più solo la paura, ma l’indifferenza. Anche perché, se prima la mafia usava la strategia della paura, ora tende a farsi amica, lasciando sospesi, nel limbo dell’indifferenza, gli animi di quanti hanno cominciato a credere più in essa che nello Stato. Certo, non bisogna dimenticare che, spesso, proprio l’indifferenza è figlia della paura. Eppure, se cominciassimo a pensare che anche la mafia può essere indotta ad aver paura, forse potremmo vincere l’indifferenza. Forse è questo il cambio di rotta che ci viene suggerito dall’arresto di Messina Denaro: da “aver paura” della mafia passare a “fare paura” alla mafia.

Su tale scia, se si analizza il fenomeno mafioso anche nel nostro Gargano, emerge che in fondo, la forza della mafia è direttamente proporzionale alla nostra incapacità a fare fronte comune, del nostro poco amore per ciò che è spazio pubblico. Si nutre del nostro individualismo, dei nostri conflitti sociali, perché sa che se tocca qualcuno, gli altri non muoveranno un dito, anzi si volteranno dall’altra parte. La mafia isola per colpire meglio, ci divide per governarci indisturbata. Non vuole un consenso esplicito, ma un tacito permesso a fare i propri affari.

La mafia trova il suo terreno fertile in un tessuto sociale sfilacciato. Più basso è il senso di comunità e di appartenenza ad un territorio e alla propria città, più alta è la probabilità che la mafia attecchisca. Essa si nutre della solitudine di chi è lasciato solo a combatterla, del timore che abbiamo di perdere qualcosa di nostro quando ci viene chiesto di difendere un bene che è patrimonio di tutti.

La mafia è anche il frutto di una delega facile, di una politica fatta di voti di scambio. La mafia trasforma il diritto al lavoro in una concessione o in un favore fatto in cambio della nostra omertà.

La mafia è il frutto di una democrazia che arranca, che stanca non sa generare una socialità aperta e partecipata, una cittadinanza attiva e responsabile. Si sostituisce ad un Stato che non rappresenta più nessuno, ma che viene identificato con una casta che lontana dalla gente usa il potere secondo la logica dei privilegi.

La mafia non si sostituisce allo Stato, semplicemente lo invade e lo conquista, lo ammalia e lo contamina. Come un cavallo di Troia vi penetra secondo logiche clientelari. Fino a proporsi come contropotere che si erge a difesa di quanti non si sentono più da esso rappresentati.

La mafia si introduce negli spazi di delegittimazione e dove maggiore è la crisi di rappresentatività. E così mentre i partiti litigano e i politici si spartiscono le poltrone la mafia cresce indisturbata nella logica di un’alleanza implicita. Ed è qui che corruzione e mafia si propongono come due facce della stessa medaglia. Alla mafia non interessa lo Stato ma il territorio, le sue risorse, il suo futuro, le sue ricchezze, le sue potenzialità, le nuove generazioni. Mentre ai politici lascia lo Stato e le Istituzioni – il potere formale –  la mafia punta al controllo del territorio e delle città – il potere reale.

La mafia si nutre della nostra indifferenza mascherata da falso buon senso e da pacifica convivenza. Gode delle nostre piccole illegalità. Si abbuffa della nostra negligenza e della nostra apatia. Alla mafia piace quando ci commuoviamo, ma teme se ci muoviamo. Alla mafia piace se dormiamo e ci divertiamo (per questo ci offre anche locali e spazi adatti per farlo, gestisce lo spaccio, la prostituzione), si preoccupa invece se ci svegliamo. Ci addomestica con il piacere facile e ci fa dimenticare il senso del dovere.

Ma c’è un altro aspetto della ideologia della mafia, che stranamente costituisce anche il suo punto più debole: la sua stupidità intesa come stoltezza. Si, perché il mafioso fondamentalmente è un uomo che confonde l’onore con il potere di disporre delle vite altrui. Il mafioso si sente più grande di quanto in realtà sia. Confonde la forza con la virilità, il rispetto con un senso di debolezza. Il mafioso è vittima di un difetto di autovalutazione del proprio io. I mafiosi, in fondo sono molto infantili: non hanno avuto il coraggio di opporsi ai loro padri e familiari che li hanno incamminati su tale strada.

Non hanno una coscienza morale né sensi di colpa, perché sono cresciuti con l’idea che non devono rendere conto a nessuno. Si pongono al di là del bene e del male. Non sanno convivere con la propria fragilità. La fuggono e la nascondono a sé e agli altri, mostrando una forza che li autorizza a oltrepassare ogni limite: legale e morale. E proprio questa è la loro stupidità.

Ed è qui che la mafia mostra tutta la propria impotenza. Essa non teme tanto gli uomini coraggiosi o gli eroi, ma teme gli uomini liberi che sanno tenere sveglia la loro coscienza, che lavorano nel sociale facendo prevenzione, togliendo da sotto ì loro piedi quel terreno di omertà e di disimpegno ad essi favorevoli. La mafia apprezza l’ignoranza quale bacino della paura e teme la cultura intesa come uso critico della ragione.

La mafia teme la nostra onestà quotidiana, ha paura della nostra indignazione, del nostro risveglio sociale, del nostro senso di comunità. La mafia finirà se ogni cittadino, oltre che percepirsi come un individuo isolato, si sentirà a pieno titolo membro attivo della propria comunità che ama e difende come parte preziosa di sè.

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